Alcune parabole Mi limito, per ovvie ragioni, a spiegare tre parabole: quella
del seminatore, del buon samaritano e del figlio ritrovato.
La parabola del seminatore
Nella Galilea, adibivano a semina piccoli appezzamenti di
terreno che meglio si prestavano qua e là.
Alle prime piogge, nel mese di novembre, dopo una prepa-
razione del terreno, il contadino passava e vi spargeva il seme di
grano o di orzo.
Il seminatore esce di casa stringendo al fianco il sacchetto di
sementi e incomincia a seminare. In Palestina i campi erano
luogo di transito per tutti, e i passanti attraversando accorciavano
il loro cammino, perciò una parte della semente sparsa finiva su
questi piccoli sentieri, ove gli uccelli la beccavano o i passanti la
schiacciavano. Altra parte cadeva sul suolo pietroso, ricoperto
da un leggero strato di terra, dove germogliava presto, ma non
essendovi terreno sufficiente non metteva radici profonde e una
giornata di sol la disseccava. Altra semente cadeva sul terreno
non bene preparato e i germogli crescevano insieme con le spine
che li soffocavano. Infine, il grano viene seminato sul terreno
buono e rende il trenta, il sessanta e anche il cento per uno. Gesù
terminò dicendo: Chi ha orecchi per intendere, intenda.
La spiegazione della parabola la dà Gesù stesso. Interrogato
da quelli che erano intorno a lui insieme ai dodici, egli disse: Il se-
minatore semina la parola. Quelli lungo la strada sono coloro nei
quali viene minata la parola; ma quando l'ascoltano, subito
viene satana, porta via la parola seminata in loro. Similmente
quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che, quando
ascoltano la parola subito l'accolgono con gioia, ma non hanno
radice in se sessi, sono incostanti e quindi, al sopraggiungere di
qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si
abbattono. Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono
coloro che hanno ascoltato la parola, ma sopraggiungono le preoc-
cupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre
bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto. Quelli
poi che ricevono il seme su un terreno buono, sono coloro che
ascoltano la parola, l'accolgono e portano frutto nella misura chi
del trenta, chi d I santa, chi del cento per uno" (Marco 4,13-20).
È difficile parlare del regno di Dio, non è una cosa, né un
luogo; è un avvenimento misterioso che non si può descrivere in
modo chiaro. Il regno di Dio non viene in modo spettacolare. È
una realtà che va oltre le nostre esperienze. Ci si può avvicinare
solo con dei paragoni. La parabola è un paragone preso dalla
vita quotidiana, che va oltre questa vita e quindi obbliga a
pensare, a riflettere. Capisce solo chi ha deciso di seguire Gesù,
chi non rimane fermo nelle sue convinzioni umane, vivendo in
un grigiore senza speranza. Il regno è Gesù. C'è chi lo ascolta ed
accoglie il dono di Dio e chi lo rifiuta: questa divisione degli
uomini ha accompagnato Gesù nella sua vita terrena e continuerà
fino alla sua seconda venuta, quando la storia umana terminerà.
Volendo approfondire il significato della parabola, noi possiamo
vedere un rapporto tra la parabola del seminatore e la vita di
Gesù e dei suoi discepoli. La vita di Gesù come quella dei discepoli
è la semina. n regno di Dio è presente come un seme, che visto
dall’esterno è una piccola cosa, tanto che si può anche non vedere.
n granello di senape, immagine del regno di Dio, è il più piccolo
di tutti i semi, eppure contiene in sé un albero. Nel seme è
nascosto il futuro che verrà, in esso vi è già una promessa.
La domenica delle Palme, Gesù ha svelato il pieno significato
delle parabole dei semi, nelle parole: "In verità, in verità vi dico,
se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se
invece muore, produce molto frutto" (Giovanni 12-24). Egli è il
chicco di grano. n suo fallimento sulla croce è la via per passare
dai pochi ai molti: "lo, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti
a me" (Giovanni 12, 32).
Il fallimento dei profeti, il suo fallimento appare ora la via
per ottenere che si convertano e Dio perdoni loro. Sulla croce le
parabole vengono meglio comprese. Gesù nel discorso d'addio
disse: "Queste cose vi ho dette in similitudini, ma verrà l'ora in
cui non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò
del Padre" (Giovanni 16, 25). Le parabole parlano in modo
nascosto del mistero della croce e perché lasciano trasparire il
mistero divino di Gesù, suscitano contraddizione, come avvenne
con la parabola dei vignaioli omicidi (Marco 12, 1-12).
Ora comprendiamo più chiaramente che Gesù non è soltanto
il seminatore che sparge il seme della parola di Dio, ma è lui
stesso il seme che cade nella terra dell'umanità per morire e così
portare frutto. Qui abbiamo un esempio della profondità della
parola di Dio dell’Antico Testamento e soprattutto dei Vangeli,
visti nella loro totalità.
La parabola del buon samaritano
Gesù mette in evidenza, attraverso la conoscenza di uno
scriba, il cuore della legge: amerai Dio (Deuteronomio 6, 5) e
amerai il tuo prossimo come te stesso (Levitico 19,18). Gesù com-
menta: "Hai risposto bene: fa questo e vivrai". I due valori sono
inscindibili, ma chi è il prossimo?
Gesù rispose con una parabola. "Un uomo scendeva da Ge-
rusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo
percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto". La
strada è tutta in discesa, perché fra le due città vi è un dislivello
di 1000 metri. Per un buon tratto la strada passava attraverso
luoghi deserti, ed era infestata da ladroni, i quali, dopo i loro mi-
sfatti, si nascondevano nei rifugi segreti che stavano ai fianchi
della strada stessa.
"Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada
e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita,
giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre".
La parabola mostra che il sacerdote e il levita avevano
terminato il loro servizio al tempio e quindi tornavano alle loro
cose. Dopo questi due, passa un terzo viandante.
"Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli
accanto lo vide n ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli
fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo
giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. n giorno
seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo:
Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio
ritorno".
Il samaritano forse era un mercante che andava a Gerico per
acquisti e di lì a poco tempo sarebbe ritornato. La pietà che sentì
per il ferito lo indusse a curarlo come meglio poteva in quella so-
litudine: applicò alle ferite i medicamenti del tempo, l'olio
emolliente e il vino disinfettante, e le fasciò con bende improvvisate;
caricò di peso sul giumento quell'uomo incapace di muoversi e
di reggersi e lo portò alla locanda. I due denari d'argento erano
una somma sufficiente per provvedere a vari giorni di cura del
ferito; se i soldi non fossero bastati il samaritano avrebbe
rimborsato il locandiere delle spese aggiunte.
Gesù concluse la parabola con la domanda: Chi di questi tre
ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei
briganti? Quegli rispose: Chi ha avuto compassione di lui. Gesù
gli disse: Và e anche tu fa lo stesso.
Vi è una differenza tra la domanda del dottore della legge e
la risposta di Gesù. Il dottore rimane nel campo delle idee, Gesù
scende ai fatti. Gesù mostra chi agisce da prossimo e aggiunge
l'esortazione ad imitare il samaritano.
Stando alle belle idee, il prossimo del ferito erano il sacerdote
e il levita, invece i due ministri della religione ebraica non
sentono la minima pietà per un ebreo lasciato ai margini della
strada, mezzo morto. Si commuove dinanzi a tanto dolore uno
straniero, un odiato samaritano, che non risultava come prossimo
nell’elenco dei rabbini, dei fari sei. Dei tre, solo il samaritano
agisce da prossimo. Com'è attuale la parabola anche oggi!
Il termine prossimo, generalmente si collega col ferito sulla
strada di Gerico. Quell'uomo è il simbolo di quanti, lungo la
strada della loro esistenza, sono vittime dei violenti, dei malvagi.
Questa interpretazione è corretta. Ma nella spiegazione che dà
Gesù della parabola, prossimo è colui che ha avuto compassione
dell’anonimo incontrato per caso.
Nella parabola, farsi prossimo ha comportato l'incontrare un
uomo in una situazione di grave sofferenza e compiere tutti
quegli atti del soccorso volenteroso, dell'interessamento, del
dono di sé e del proprio tempo.
Gesù è il buon samaritano che si occupa dei ciechi, degli
zoppi, dei lebbrosi, dei sordi, dei muti, dei peccatori, dei malati
nel corpo e nello spirito.
La Chiesa deve farsi prossimo e immettere nel mondo la
verità della fraternità degli uomini e l'impegno per realizzarla.
La parabola del figlio ritrovato (prodigo)
Riporto il testo dal Vangelo di Luca: "Un uomo aveva due
figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del pa-
trimonio che mi aspetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose,
partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo
da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una
grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora
andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione,
che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto
saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno
gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in
casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di
fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho
peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di
essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di
te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre
disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo,
mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello
grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo
mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ri-
trovato. E cominciarono a fare festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu
vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli do-
mandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo
fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo
ha riavuto sano e salvo. Egli si indignò, e non voleva entrare. Il
padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco io ti
servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e
tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le
prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli
rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio
è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi perché questo tuo
fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ri-
trovato" (15, 11-32).
La parabola è sublime, non teme confronti con altre pagine
scritte dai geni dell'umanità, né sotto l'aspetto letterario, né su
quello dell'investigazione della profondità della mente, della
psicologia dell'uomo. Nessuno scrittore ha raggiunto tanta
potenza di commozione, in un racconto così breve, così vero. La
sua semplicità è somma, eppure la sua efficacia è straordinaria.
La parabola ci presenta un figlio ritrovato, una famiglia
riunita. Figlio smarrito, fino a un certo punto, nel senso che
pondera e sceglie. Egli decide d'impostare la vita, secondo un
suo progetto. A casa di suo padre tutto funziona, egli è accudito
e rispettato dai servi, forse manca l'essenziale.
La parabola mostra anzitutto la figura del figlio prodigo, ma
subito vediamo anche la magnanimità del padre. Egli asseconda
la volontà del figlio più giovane di avere la sua parte del
patrimonio e divide l'eredità. Concede al figlio di andare per la
sua strada, anche se può immaginare che cosa potrà fare. Il figlio
parte per un paese lontano. Quanto è triste questa frase che
indica l'allontanamento da Dio. L'uomo che non riconosce Dio
come sua origine e suo fine e non accetta la sua dipendenza
vitale dal Creatore, nega la sua stessa realtà. Diventa un piccolo
essere sperduto, assimilato ad una cosa nell'immensità del cosmo,
dell'universo. Il figlio disconosce il padre, lo abbandona e con
questa decisione inizia un cammino senza senso e futuro. Vuole
solo godere, spremere dalla vita il divertimento, il piacere, essere
autonomo; cerca la libertà ma trova la schiavitù.
Vuole vivere solo per se stesso, chiuso nel suo egoismo.
Nella parabola, detta duemila anni fa, vediamo adombrata
l'attuale ribellione a Dio e alla sua legge, fonte e difesa dalla vera
libertà, del bene dei singoli e di ogni altra comunità familiare e
sociale. Alla fine il figlio ha sperperato tutto: è diventato un
guardiano dei porci.
Per gli ebrei il maiale è un animale impuro e l'esserne guardiano
è l'espressione della sua estrema miseria, dello schianto della sua
dignità di uomo. Ma non tutto è spento in lui. Vi è ancora una pos-
sibilità di tornare indietro, dopo avere sperimentato il fallimento
totale. Il Vangelo dice: Rientrò in se stesso. Il figlio si era allontanato
dalla sua casa, dal padre e anche da se stesso. Ora deve fare il cam-
mino inverso, quella che si chiama conversione. Le parole che
prepara per l'incontro col padre ci dicono la fatica e l'impegno ne-
cessari, per essere nuovamente se stesso nella libertà e nella verità.
Il padre vede il figlio quando è ancora lontano. Dio non di-
mentica e non perde di vista l'uomo che si è allontanato da lui.
Dio è ancora con l'uomo con il suo amore vigile e misericordioso.
Egli va incontro al figlio e non lo lascia finire di dire la sua con-
fessione, lo bacia e fa preparare per lui un grande banchetto per
manifestare la gioia per il figlio ritrovato. Dà ordine ai servi di
portare il vestito più bello, di mettergli l'anello al dito e i calzari
ai piedi. Tutto ciò che aveva perduto gli viene ridonato, non con
il rimprovero e il castigo, ma nella gioia. È festa condivisa e
piena per il figlio ritornato dalla morte alla vita. Qui vi è l'allusione
alla storia dell'umanità, a cominciare dal primo uomo Adamo,
fino a ciascuno di noi, quando dopo avere perduto i doni sopran-
naturali, preternaturali e colpiti anche quelli naturali, siamo
restituiti alla dignità perduta di figli.
Mentre si è nel pieno della festa, tra canti e suoni, entra in
scena il figlio maggiore, che non capisce e non accetta tutto
questo, perché lo ritiene ingiusto, come un premio ad un com-
portamento disonesto. Vediamo ancora la differenza tra l’amore
di Dio e quello dell'uomo. Dio ama con un amore incondizionato,
totale, infinito. L'uomo è limitato, vede solo il male fatto dal
fratello, mettendolo a confronto della sua condotta ineccepibile
dal punto di vista legale, ma priva di misericordia, di perdono,
cioè di amore. Gesù con questa parabola risponde anche agli
scribi e ai farisei i quali mormoravano perché si intratteneva e
mangiava con i peccatori.
Nella seconda parte del discorso, versetti 48-59, si presenta il
nuovo tema: chi mangia il pane vivo non morirà, ma vivrà in
eterno.
Finito il discorso alla folla, ecco la reazione dei discepoli. Ri-
conoscono che parlare di una unione così stretta con Dio in
Gesù-Figlio, lasciando il progetto del Messia glorioso, è fuori dai
loro schemi, dalle loro attese, è un discorso duro da seguire e
non accettano la parola di Gesù. Gesù si rende conto dei loro
pensieri e li provoca ancora di più completando il suo discorso.
Il Figlio dell'uomo non solo viene, scende da Dio ma anche sale
a lui. Il mistero del rapporto Dio-uomo in Gesù-Figlio sta in una
donazione di Dio con l'uomo senza riserve, senza limiti.
Un mistero che solo l'uomo- spirituale e non l'uomo carnale
può capire. Gesù sa che alcuni discepoli non credono e anche che
uno di loro lo tradirà.
L'evangelista dice che molti discepoli non lo seguirono più. Gesù
si rivolge in particolare ai dodici e domanda a loro una presa di
posizione chiara. Simon Pietro risponde al plurale, a nome di tutti,
con una professione di fede, con la quale riconosce che solo la
rivelazione di Gesù può introdurre nella vita eterna, divina. L'espressione
il Santo di Dio non è un titolo messianico regale ma sacerdotale.
Gesù sa che anche fra i dodici, pur scelti direttamente da lui,
c'è un traditore: Giuda figlio di Simone Iscariota, cioè uomo di
Keriot, villaggio di Giuda, egli è un diavolo perché fautore di di-
visione tra il gruppo credente dei dodici. A conclusione di questa
riflessione sul discorso di Gesù sul pane vivo, sottolineo l'impos-
sibilità del senso metaforico, allegorico dato dai protestanti e da
altri negatori, alle parole che hanno istituito il sacrificio eucaristico
nell'ultima cena, che hanno una preparazione in queste: sono
dure, ma chiare e precise. Gesù afferma ripetutamente che la sua
carne è vero cibo e il suo sangue è vera bevanda e che per avere
la vita eterna bisogna mangiare questa carne e bere questo
sangue. Non si può equivocare. I giudei ostili così le hanno
intese, come molti discepoli di Gesù.
L'aggettivo duro qui si può intendere anche ripugnante, sto-
machevole, così da suscitare ribrezzo, pensando ad un banchetto
fatto da antropofagi. Gesù' non ha detto la maniera in cui si
sarebbe mangiata la sua carne e bevuto il suo sangue. Ma davanti
alla possibilità dell'interpretazione antropofaga e dello scandalo,
non ritira una sola parola.
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